Questi racconti prendono le mosse da quattro vicende legate alla nostra tradizione. Le abbiamo poi rielaborate alla maniera di altrettante grandi voci della letteratura marinaresca — Conrad, Melville, Stevenson e Verne — così da restituire a quelle avventure il passo, il lessico e l’immaginario propri del loro tempo. Oltre l’atto di ossequio ai quattro celebri scrittori, ne è nato un breve ma significativo esercizio di stile e memoria, ideato per chi ha passione per il mare e lo scrivere agile.
Sono infine racconti da assaporare con piacere e senza premura, magari proprio sotto l’ombrellone…

Incaglio nella nebbia
Questa vicenda è frutto di fantasia, però la nave e i suoi personaggi sono realmente esistiti. Scritta sullo stile di Joseph Conrad. Vedi qui il nostro articolo originale.
Il veliero Narcissus procedeva con buona andatura lungo la costa del Bengala, sospinta dalla brezza di sud-est. Era carica di derrate coloniali: balle di canapa, cassette di tè, assi di di tek ancora umido di foresta che, quando sbattevano l’una contro l’altra, parevano schianti improvvisi nel ventre della stiva. I marinai, a torso nudo e brulicanti, avevano la pelle macchiata di sale e occhi socchiusi come impercettibili fenditure. Le vele cantavano sopra le loro teste; i bozzelli dei pennoni depositavano in coperta delle ampie scaglie rosse di ruggine. A prua, il nostromo armeggiava e imprecava con la pompa a mano per vuotare gli ombrinali tappati, ma nessuno lo ascoltava davvero. La nave filava diritta, e sembrava invincibile.
Quella mattina, Conrad, allora secondo a bordo, sorvegliava la navigazione con l’occhio attento di chi conosce le insidie dei bassifondi tropicali. Notava il colore dell’acqua, quel torbido giallo lattiginoso che in certi giorni prelude al fango insidioso dei banchi mobili. Aveva navigato abbastanza da sapere che il mare, là era molto imprevedibile, non urlava mai prima di tradire.
A un tratto, un sussulto nella chiglia fece sobbalzare l’intera ossatura della nave. Il timone si indurì alla banda. Un urlo ruppe il silenzio:
“Banco! Banco di sabbia a prua!”.
Era tardi. Il Narcissus si arrestò bruscamente, come trattenuta da artigli sommersi, le vele persero la loro spinta energica e quasi si afflosciarono, come una persona che perde ogni speranza.
Il Capitano uscì dalla sua cabina con la faccia di chi ha annusato il disonore.
“Scandaglio! Subito!” urlò infuriato.
Gli uomini corsero a poppa e a prua con i piombi sagolati; i numeri arrivarono subito, precisi.
“Due piedi a prua… cinque piedi a poppa, signore!”
Conrad rimase in silenzio. Poi, lentamente, tornò nella sua camera, prese matita e candela e consultò le tavole idrostatiche del Narcissus. Sul giornale di bordo erano poi annotate le letture precedenti, prima dell’incaglio. Confrontando tavole e misure, individuò di quanto peso dovevano liberarsi per farla galleggiare di nuovo.
Concluse: una tonnellata, una tonnellata precisa!
Uscì con passo sicuro e – con l’approvazione del Capitano ordinò:
“Via una tonnellata di legno dal corridoio di prua! Le assi più leggere restano, le altre… in mare!”
Mentre il Sole tropicale arrembava il ponte, l’equipaggio inquieto ma obbediente, iniziò a gettare nell’acqua torbida prima le pesanti assi di tek. Conrad osservava con apprensione la linea di galleggiamento lungo lo scafo, come un medico che attende il respiro del paziente. Purtroppo, dopo l’operazione, la nave non si muoveva da quel tragico assetto. Il Capitano, con le braccia allargate esclamò:
“Signor Conrad, ha fatto bene i conti?”
E Conrad: “Sì Capitano, e tra non molto sarà anche l’alta marea!”
Quindi l’attesa. Le ore passavano lente, ma il mare sapeva aspettare. Finalmente, il livello di quell’acqua perfida si alzò sulla murata come una promessa mantenuta e infine, s’udì un lieve rollio e uno strappo dolce sotto la chiglia.
La nave si mosse. Era libera!
“Ci siamo… ”, sospirò Conrad, senza enfasi. Nei suoi occhi brillava quel fuoco discreto che arde solo in chi ha servito e rispettato il mare con intelligenza e istinto. Sul volto del Capitano apparve un malcelato ed effimero sorriso.
Molti anni più tardi, la Narcissus avrebbe cambiato bandiera per essere gestita da un armatore camogliese.=

Il naufragio del “Fratellanza”
Questo racconto reale dei sopravvissuti di una nave camogliese affondata nel mezzo dell’Oceano Indiano. Scritto sullo stile di Herman Melville. Vedi qui il nostro articolo originale.
Il Fratellanza, brigantino a palo, fiore dei cantieri Baglietto di Varazze, era una nave che portava con sé l’orgoglio, la fatica dei camogliesi e l’anima vigile del mare stesso. Nel gennaio dell’anno 1888, con il capitano Rocco Schiaffino al timone, lasciò Surabaya, in Indonesia e diretto in Europa, con un carico di zucchero, ignaro del fato che lo attendeva nelle oscure pieghe dell’Oceano Indiano.
All’improvviso, come fosse sceso un giudizio divino, il cielo si fece cupo, il vento s’inarcò con furia selvaggia, e il timoniere levò la voce, vibrante di terrore:
“Capitano! Le nuvole s’ammassano e il vento ci volge le spalle!”
Schiaffino, saldo nella tempesta nascente, mostrò la sua determinazione:
“Non temere, ché la nave è pronta a sfidare le buriane, e noi suoi custodi. Terzaruolate le vele! Né ciclone, né inferno, né dio dei fulmini potrà ferire questa prua finché noi restiamo vigili!”
Ma il ciclone era un mostro senza pietà. Le vele si sbriciolarono come carta bagnata, alberi e pennoni caddero con tonfo di legno ammazzato, e il veliero si ritrovò privo di voce e governo. Schiaffino allora comandò con autorità imperiosa:
“Abbandonate la nave! Salvi chi può!”
L’equipaggio si divise tra due barcasse: la prima guidata da Schiaffino verso Sud-Ovest, dove fu infine salvato da una nave militare francese; la seconda da Simone Marini, lo Scrivano, il quale, con cuore fermo e mente lucida, prese il comando di un manipolo di naufraghi, fra cui quattro giavanesi arruolati in fretta per sostituire altrettanti marinai infermi. La sua barcassa seguì quella di Schiaffino per un giorno, poi una buriana le separò.
Navigando verso ponente per giorni, quella lancia era un mondo sospeso tra la vita e la morte; ben presto le crepe dell’umanità si fecero sentire. Una notte, uno dei giavanesi, con accetta in pugno e voce carica di sfida, ruppe il silenzio:
“L’acqua è il sangue che ci dà vita! Chi comanda qui? Il più forte o colui che impugna la pistola?”
Marini, con calma glaciale, impugnò la sua arma, la cui presenza era un’ombra nera contro l’abisso, e sentenziò:
“Nessuno comanda qui che non sia la disciplina stessa, e chi infrange questa legge infrange il legame che ci mantiene vivi; perciò la morte è la sola libertà che gli resta!”
Fu un verdetto che non ammetteva replica. Il ribelle cadde in mare, trafitto dal proiettile di Marini; la calma tornò su quelle acque scure e drammatiche.
Per 750 miglia (1.400 chilometri) il gruppo solcò acqua senza terra, con la fame a divorare le forze e la sete a prosciugare la speranza. Un giovane camogliese, con voce quasi rotta dal vento e dalla disperazione, si rivolse a Marini:
“Primo, dimmi: vedremo ancora l’alba d’una terra? O saremo spiriti perduti, figli del mare?”
Marini sollevò lo sguardo al firmamento, e con voce lenta e solenne rispose:
“Non la certezza della terra, ma la fermezza del cuore ci sostiene; finché l’anima è un saldo remo, anche il mare più oscuro può essere navigato!”
Al limite della resistenza, giunsero infine sull’isola di Diego Garcìa, luogo dimenticato, privo di nome e di pietà. Gli indigeni non accolsero i naufraghi a braccia aperte, anzi con sospetto e ostilità. Marini, consapevole di quel fragilissimo equilibrio tra vita e morte, comandò:
“Alzate il fuoco, ché la fiamma sia scudo e bandiera di vita! Chi sfida il fuoco sfida la nostra volontà di sopravvivere!”
La pistola si levò ancora, segno d’autorità e di volontà, e la prima notte si chiuse sui falò accesi e sulle ombre che vegliavano.
Sei mesi trascorsero così, sospesi fra stenti e attesa, tormentati dall’incudine del Sole e da insetti implacabili.
Un bel giorno, una cannoniera francese vide il fumo e spezzò così quell’atroce incantesimo: i naufraghi furono finalmente raccolti, nutriti e riportati al mondo della gente normale.
Tornati a Camogli, il loro ritorno fu senza festeggiamenti o onori e con un silenzio che pesava più di mille parole. Dopo due mesi di riposo, Schiaffino e Marini si imbarcarono nuovamente, perché chi è nato e vissuto tra le onde non può mai dimenticare il loro richiamo.
Il Fratellanza vive ancora oggi in un dipinto nel Museo Marinaro “Gio Bono Ferrari”, opera priva di slancio artistico ma perfetta nell’anatomia della nave, come testimonianza muta di un tempo che fu.=

La notte dell’Astrea
Uno dei naufragi successi a Camogli, forse quello della navi più grande. Scritto sullo stile di Robert Louis Stevenson. Vedi qui il nostro articolo originale.
Accadde nell’inverno dell’anno 1916, quando la costa ligure, da giorni e giorni, era martellata da una successione di burrasche implacabili, come se il mare, stanco del suo giogo, avesse deciso di scagliarsi contro la terra con furia primordiale. Cavalloni alti come torri si spezzavano sulla riva con fragore di cannonate, spinti da un libeccio infuriato che pareva non volersi placare mai.
Fu sul far della sera, intorno alle cinque del dodicesimo giorno di dicembre, che un brigantino a palo, dal nome poetico di Astrea, si profilò all’orizzonte, lottando contro l’immane distesa delle onde. Proveniva da Marsiglia ed era diretto a Genova, suo porto di destino. Ma il Capitano, un uomo di nome Edoardo Mennea, originario di Sorrento, sapeva che non vi sarebbe entrato quella notte: in quei tempi di guerra, i porti venivano serrati al tramonto, e le luci della città erano come promesse infrangibili, vietate ai naviganti.
L’Astrea — un bastimento di 807 tonnellate, lungo cinquantasette metri, costruito nel 1890 nei cantieri di Loano — aveva navigato per anni sotto diversi nomi e padroni, figlia di armatori liguri e di destini meridionali. Il suo nome originario era Pietro Accame, e portava con sé l’orgoglio d’una dinastia di uomini di mare.
Sul ponte, fra i lampi del crepuscolo, l’ufficiale di guardia si fece innanzi con passo esitante.
“Capitano, Genova è sbarrata. Nessun segnale di risposta. Ci lasciano fuori!”
Mennea si tolse il berretto e lo serrò nella mano, con gesto pensoso.
“Allora il porto è divenuto fortezza. E noi, prigionieri del mare!”
“Che faremo, signore?”
“Accosteremo su Portofino. Se Dio vuole, il promontorio ci coprirà le spalle!”
Ma le speranze, si sa, hanno poco peso contro le onde scatenate. Verso le dieci della sera, mentre l’Astrea si trovava all’altezza di Camogli, la tempesta raggiunse il suo culmine. Il Capitano, uomo esperto ma non temerario, comprese che non vi era altra scelta. Guardò il timoniere, che gli lanciò uno sguardo grave.
“Signore, non c’è governo. Ci strappa il timone dalle mani!”
“Sarà la sabbia a salvarci, se il Cielo ci permette di toccarla. Volgete la prua alla riva! Meglio spiaggiati che dispersi!”
Nel buio flagellato dal vento, uno dei marinai salì sul castello di prua e cominciò a soffiare il corno da nebbia. Il suono, greve e lamentoso, si sparse nella notte come il grido d’una creatura ferita, giungendo infine alle orecchie dei camogliesi, che — pur abituati agli umori del mare — compresero all’istante che qualcosa di terribile stava accadendo là fuori. Fu il vecchio Andrea, pescatore a riposo, a scorgere per primo la sagoma sbandata della nave.“Gente, allarme! È un bastimento, e va a morire sotto la chiesa!”
Presto, la spiaggia sotto la basilica si popolò di figure avvolte nei mantelli, uomini e donne accorsi in silenzio, armati solo di cime, lanterne e pietà. Attraverso cavi tesi nel fragore della schiuma, sei membri dell’equipaggio furono strappati alla furia delle onde. Uno, mezzo svenuto, si rianimò tra le braccia di un pescatore.
“Il Capitano… è rimasto a bordo… Non voleva abbandonare la nave…!»
Il vecchio Andrea strinse i denti.
“Allora è uno di quelli veri!” esclamò, “E pregheremo per lui stanotte!”
Poco oltre la mezzanotte, il brigantino si scompose come un’anfora sotto un martello supremo. Si spezzò sugli scogli detti “Pianora delle Chiappe” — che oggi paiono quasi inghiottiti dalla sabbia — con un fragore che scuoteva persino i contrafforti della chiesa.
Oggi, di quella tragica notte restano pochi resti e molte ombre. Sul terrazzo verso sud del Castel Dragone si possono ancora vedere frammenti dell’ancora dell’Astrea, contorta come una reliquia sacra. E al Civico Museo Marinaro di Camogli si conserva una bigotta, ossia una puleggia cieca, che un tempo reggeva i cavi dell’alberatura. Fu dono di Ido Battistone, spirito fiero dello sciabecco “Ō Dragōn” e ultimo baluardo di una stirpe marinara che mai dimenticò le voci del mare.

Il Trojan, vascello dei Due Mondi
Forse l’impresa di una nave camogliese che ebbe più risonanza all’estero. Scritto sullo stile di Jules Verne. Vedi qui il nostro articolo originale.
L’anno era il 1902, e il Golfo del Messico distendeva dinanzi al Trojan una distesa plumbea e sconfinata, come se gli oceani stessi si fossero fatti silenziosi, in attesa. Al timone di quella poderosa nave, di costruzione canadese, si ergeva il Capitano Filippo Avegno, figlio del borgo marinaro di Camogli, uomo di sguardo fermo e cuore temprato dalla salsedine del mondo.
Il Trojan, veliero del tipo Nova Scotia, tre alberi come guglie di cattedrale, stazzava 1.600 tonnellate ed era lungo oltre 70 metri: una macchina di legno, cordami e olona, nata per sfidare tutti i continenti.
L’approdo verso cui si dirigeva, Gulfport, nel Mississippi, non era che un sogno intriso di fango e audacia, un intrico di acque prive di carte, mutevoli come l’animo degli uomini. Nessun bastimento oceanico vi aveva mai tentato accesso. Fino ad allora.
“Signori miei”, disse Avegno, posando il cannocchiale a un lato e guardando l’equipaggio con serena autorità, “la scienza del mare non si misura coi compassi, ma col coraggio. E nessun progresso nasce senza un primo passo… o un primo attracco!»
Lo Scrivano di bordo, volto abbrustolito dal Sole tropicale e voce esitante, osò un dubbio:
“Capitano… il signor James di Gulfport ci avverte che la barra è mobile, e il fondale… infido. Le carte che ci ha fornito sono nuove e mai sfiorate da una mano marina!”
Avegno lo fissò, e con voce che pareva provenire dagli abissi disse:
”Amico mio, nessuna carta traccia la via dell’uomo audace. Saremo noi stessi la carta!”
Il Trojan allora avanzò, fendendo le acque torbide come una lama fra i flutti. Le correnti, capricciose come sirene ingannatrici, cingevano lo scafo, ma l’equipaggio non tremò. Echeggiarono ordini secchi, scandagli manuali, barcassa calata, marinai assicurati con corde al corpo mentre gettavano e ritraevano le sonde fuoribordo.
“Due braccia!”, “Tre!”, “Fondo sabbioso, niente secche!” si udiva gridare.
A poppa di un vecchio rimorchiatore ancorato a ridosso della foce, il Capitano Joseph Jones, responsabile del nuovo approdo, osservava la scena con un monocolo tremolante.
“Santo Cielo…” sussurrò al suo assistente, “quel camogliese lo sta davvero facendo!”
E fu allora che accadde: la prua del Trojan, come l’ariete d’un tempio, varcò la soglia invisibile del porto. Dalle banchine fangose, uno spontaneo clamore proruppe tra i lavoratori e le autorità del sito, era un misto di timore, ammirazione e orgoglio: la prima nave oceanica aveva compiuto l’ingresso, si trattava davvero di un evento fondativo!
Avegno, con la pazienza d’un cartografo arabo e la precisione d’un ingegnere romano, annotò immediatamente distanze, derive, latitudini, batimetrie.
“Consegnate questi rilievi al Capitano Jones!” disse, porgendo un fascio di carte colme di annotazioni, “E ditegli che può far entrare le altre navi alla fonda. Vi è spazio per tutte!”
Qualcuno — nei giorni successivi — osò insinuare che il gesto fosse stato motivato da “una cooperazione incentivata”, come scrissero certi giornali americani con eufemismo sospetto. Ma a Camogli si rise di quelle calunnie: chi aveva conosciuto Avegno sapeva che era figlio del Dragone, uomo d’onore e di mare, capace di affrontare insidiose tempeste per puro spirito di servizio.
Gulfport, in pochi mesi, mutò volto: velieri da carico, ma anche piroscafi iniziarono a transitare regolarmente, il commercio del legname conobbe un’impennata. Dalla neonata Società Storica della città giunsero a Camogli richieste di documenti, fotografie, testimonianze. Fu inviata l’immagine del dipinto del Trojan – conservato al Civico Museo Marinaro “G.B. Ferrari” e, nel gennaio 2022, il Capitano Roberto Volpi — uno degli eredi della fierezza ligure — donò alla città americana il significativo stemma della Società Capitani e Macchinisti Navali.
E fu in quell’occasione che venne pronunciata la frase: “Il legame italiano con la prima nave del nostro porto non è più una diceria, è un fatto, scolpito nel legno e nella corda, e nella nobile figura di quel marinaio camogliese!”=
(immagini Archivio Capitani Camogli AI)































