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Il naufragio del veliero “Fratellanza”

La nave era uno splendido brigantino a palo costruito nel 1878 dai cantieri Baglietto di Varazze. L’armatore era il camogliese Fortunato De Gregori, il suo soprannome o “nomiaggio” era “Cicìn”. De Gregori che era anche proprietario del pinco “San Francesco” e della goletta “Letizia”. La Fratellanza stazzava 797 tonnellate di registro, il suo porto di armamento era Genova ed il primo capitano fu lo stesso De Gregori. La polena scolpita sulla sua prua rappresentava la figlia dell’armatore.


Mappa della posizione del naufragio del brigantino a palo “Fratellanza” – agosto 1888

Nel gennaio del 1888, il veliero era ingaggiato nei viaggi tra l’Oceano Indiano e l’Atlantico. Era partito da Surabaya in Indonesia con un carico di zucchero al comando del capitano camogliese Rocco Schiaffino. Quando si trovò nel mezzo dell’oceano Indiano, fu colpito da uno spietato ciclone che lo disalberò e ne provocò l’affondamento. L’equipaggio si salvò in tempo sulle due scialuppe che presto si separarono a causa del tempo avverso: la prima al comando di Rocco Schiaffino con metà dell’equipaggio fece rotta verso Sud Ovest. Fu fortunatamente fu soccorsa da una nave americana prima di raggiungere l’isola di Mauritius controllata dai militari francesi. La seconda al comando dello Scrivano, cioè del Primo Ufficiale Simone Marini, anch’egli camogliese, percorse ben 750 miglia nautiche, cioè 1400 chilometri verso Nord Ovest, per arrivare su un’isola disabitata dell’arcipelago di Diego Garcia, a sud delle Maldive.
Dell’equipaggio del Fratellanza – che era camogliese – facevano parte anche quattro giavanesi che avevano sostituito altrettanti italiani purtroppo infermi. Furono questi quattro sostituti che durante l’emergenza dell’abbandono nave manifestarono evidenti intenzioni di ammutinamento: uno addirittura minacciò con un’accetta il Primo Ufficiale, che peraltro aveva con sè sempre una pistola così da proteggere l’unico barilotto d’acqua che avevano come riserva. Nella colluttazione, il ribelle fu colpito da una manovella e gettato in mare: l’ordine fu così ristabilito. La scialuppa di Marini si trovò ben presto in difficoltà. A parte il meteo contrario, non fu certamente semplice gestire una piccola imbarcazione con naufraghi sofferenti a bordo per 1400 chilometri in oceano. Lo Scrivano faceva buona guardia alle razioni di sopravvivenza che erano solamente il barile d’acqua, un cesto di gallette e delle radici di tari. Si soffrì ovviamente fame e sete, ma infine giunsero a Diego Garcìa. In quel territorio furono subito assaliti dagli indigeni che li videro come invasori. In quel frangente, fu molto utile la pistola di Marini. I naufraghi successivamente costruirono su quello sperduto lembo di terra un piccolo accampamento, organizzando turni di guardia e falò
notturni.
Dopo sei mesi, finalmente, il fuoco fu avvistato da una cannoniera francese di pattuglia e furono così salvati e riportati in Patria tramite i canali consolari. L’episodio fu uno dei più significativi per quanto riguarda la resistenza umana in condizioni di vita estreme; il comportamento di Marini fu considerato ovviamente esemplare e riconosciuto dal mondo marittimo negli anni successivi. Il naufragio del Fratellanza fu una vicenda terribile che lasciò il segno ma, dopo due mesi di riposo a Camogli, sia il capitano Rocco Schiaffino che il Primo Ufficiale Simone Marini, reimbarcarono su altri velieri per altri viaggi e per altre avventure.


Il dipinto del veliero “Fratellanza”

Al Civico Museo Marinaro “Gio Bono Ferrari” di Camogli è conservato il dipinto del veliero “Fratellanza” del 1885. Il lavoro, datato 1880, si inserisce nel filone dei “ritratti di navi” realizzato su commissione di capitani e armatori camogliesi. La composizione, di autore ignoto, come spesso accade in questo genere di dipinti, è estremamente curata e dettagliata, con una precisione quasi fotografica nella rappresentazione del veliero e del suo armamento. Tuttavia, rispetto ad altre opere, si nota una certa rigidità nella resa pittorica, con una tavolozza cromatica limitata e una pennellata piuttosto uniforme. Manca, in particolare, quella vivacità di colori e quella varietà di tocchi che caratterizzano certi lavori migliori. È difficile stabilire se questa scelta stilistica sia dovuta a una precisa volontà dell’autore, magari condizionata dalle esigenze della committenza, o se sia invece il risultato di un progressivo declino della sua vena creativa. In ogni caso, l’opera si distingue per la sua ineccepibile qualità tecnica, soprattutto nella rappresentazione del veliero, che rivela una profonda conoscenza dell’arte marinaresca. Il dipinto, pur non raggiungendo i vertici espressivi di altre opere, rimane un documento interessante della pittura di marina dell’epoca e un prezioso omaggio alla tradizione marinara di Camogli.=

(ascolta il pocast di questa vicenda)

(tratto da “Camogli, La Città dei Mille Bianchi Velieri” di Gio Bono Ferrari)

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