Nave da crociera alla fonda davanti alla costa brasiliana (foto CSLC Giuseppe C. Lemmi)
Sdraiato su una barella. Solo. Nessun parente a fianco. I corridoi illuminati da neon freddi e impietosi, luci che osservavano impassibili come medici. Miami. Sbarcato d’urgenza. Gli spasmi dei calcoli renali non lasciavano tregua. Nessun analgesico bastava.
Il primo medico mi disse di bere molto. Così, semplice. Ore dopo, in hotel, il dolore aumentò. Chiamai l’ambulanza. Il medico che avevo visto prima mi ammonì: «Al pronto soccorso non risolveranno il tuo problema». Ma poco dopo ero dentro il Mount Sinai di Miami Beach. Immenso. Freddo. Solo.
Dopo il triage, indossai il camice da degente. Il braccialetto al polso. Entrai nella grande sala radiale. Sei lettini disposti come petali di una rosa. Il “fiore della vita”, simbolo dei servizi d’emergenza. Al centro, medici e infermieri al lavoro. Precisi. Veloci. Distribuivano competenze e strumenti dove serviva. Sopra di me, quei neon impietosi lasciavano posto a possenti lampade chirurgiche. La luce era pallida, accecante e… impersonale. Oltre ottomila chilometri da casa. L’unico obiettivo: fermare quel dolore. Nessun parente a fianco.
Immagine di sala radiale chirurgica
La mia barella fu sistemata in uno dei petali liberi. Appena in posizione, mi applicarono una flebo. In quell’istante pensai a mia madre. L’avevo sentita poche ore prima durante la consueta telefonata dal pontile dov’era ormeggiata la nave. Non volevo allarmarla. Le dissi che tutto procedeva come al solito, che presto avremmo iniziato una nuova crociera ai Caraibi. Ma ero piegato dal dolore. Dopo quella comunicazione, realizzai quanto fosse delicata la situazione: fisica e emotiva. Solo il gelido silenzio degli estranei.
Fu forse la flebo. O il pensiero di mia madre. Il dolore cessò improvviso. Un sollievo totale. Mi sentii rinascere. Ricordai i giorni patiti nella cabina in penombra. Il medico di bordo impotente davanti a quel tormento. Tutto passato. L’orizzonte tornava nitido e sereno.
Il giorno dopo, in hotel, il “sassolino maledetto” fu espulso. Mi dissero di conservarlo per le analisi. Io lo gettai nello sciacquone. Tra ingenuità e risentimento.
Rispettai alcune regole dietetiche. L’incubo non tornò. Rimase però una riflessione: la mancanza di chi ami pesa. Chi va per mare sa che può trovarsi vittima di incidenti, malori, arresti improvvisi o altre situazioni spiacevoli, lontano da casa. Fa perciò i conti con la solitudine. La sopporta. La porta con sé.
Chiesa anglicana alle isole Falklands (archivio Capitani Camogli)
Anni dopo, nei fiordi della Patagonia, mi diagnosticarono un’appendicite. Dovevo sbarcare subito. Lasciai la nave a Port Stanley, Falklands. Appena in ospedale, verificato lo stato di salute, fui ricoverato in una camera semplice ma funzionale. Con me un paziente inglese. I suoi familiari lo visitavano ogni giorno. Io ero solo. Quella volta, tredicimila chilometri da casa. Solo decisioni e comunicazioni asettiche. E la determinazione a escludere pensieri negativi.Mentre ogni goccia della flebo scendeva lenta nel mio braccio, il paziente inglese parlava continuamente del suo lavoro all’M.P.A. — Mount Pleasant Airport, Falklands. Quella sigla, che ancora ritorna in testa, mi ricordava lo scalo dal quale sarei poi partito per Londra e quindi a casa.
L’intervento andò bene. L’esperienza fu più tranquilla di quella di Miami. Meno dolore. Meno caos. Ma l’isolamento si fece comunque sentire. La solitudine era la stessa, diversa solo per il contesto: fredda e distante come il vento di quelle isole.
Nave da crociera alla fonda a Cabo San Lucas, Messico (foto CSLC Roberto Volpi)
E forse è proprio questo: le grandi distanze da casa, l’assenza di persone care, formano il carattere. Rendono capaci di affrontare l’imprevisto con maggior lucidità. E la solitudine diventa allora compagna silenziosa. Fedele. Sempre al tuo fianco per dirti una parola o per ascoltare, ma solo se la sai assecondare. Proprio nei momenti più delicati, quando intorno ci sono neon impietosi o pazienti sconosciuti, si compie quel paradosso: la solitudine stessa diventa compagna.
E infine, sia nel silenzio del pronto soccorso sia tra flebo e lettini disposti a petalo, si misura la distanza tra l’uomo e ciò che ama. Là si percepisce quella preziosa energia, utile per sopravvivere lontano da casa e da chi ci vuol bene.=































