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Il miraggio dell’oro

La superstizione sulle navi del 2000

Isola di Mykonos, Mar Egeo, estate anni 90.
Il Meltemi soffiava impetuoso all’imboccatura del porto. Era impossibile il solo pensare di fondare l’ancora in quei paraggi. Se quella nave da crociera desiderava “toccare” comunque l’incantevole porto, l’unica soluzione era dirigere a Tourlos!

La baia di Tourlos, a Mykonos. Oggi è presente un ottimo e lungo pontile.

Tourlos è una baia di Mykonos che permetteva l’ancoraggio “ridossato” vicino alla costa quando il Meltemi è “arrabbiato” (come il Leone!). Sia il Comandante che gli Ufficiali di Coperta non erano mai stati in quel posto e si trovavano perciò di fronte a delle decisioni: andarsene o farsi sbattere pericolosamente da venti di 40 nodi (70 Km/h) all’ancoraggio davanti al porto oppure avvicinare la nave a pochi metri dalla spiaggia a Tourlos. Che fare? Il secondo Ufficiale, con la sua lunga esperienza, disse stentoreamente: “Questa è davvero una situazione caprina!”.
Poco dopo, salì a bordo il bravo pilota del porto, Vasiliòs Gryparis, che spiegò la manovra più opportuna di quella mission impossible. “Bastava” dar fondo a un’ancora guardiana, cioè verso proravia (al vento) e l’altra verso poppa, così da bloccare il movimento avanti-indietro della nave, poi, un solo cavo veniva mandato a terra, dal lato dell’ancora poppiera che veniva ”voltato” in un’invisibile (ma solida) bitta sulla spiaggia a pochi metri dalla riva. In quella maniera, la nave era così “avvitata”, come diceva l’esperto pilota, cioè non si muoveva più. L’intera manovra era realizzata in circa 10 minuti col vento possente che soffiava sopra le loro teste, mentre i passeggeri ignari e contenti stavano consumando la ricca colazione del mattino!
Insomma, in quelle condizioni o si andava a Tourlos o si saltava Mykonos, con le conseguenti lamentele dei passeggeri che non capivano perché non fosse possibile visitare quell’incantevole porto in una splendida giornata di Sole, con mare piatto e “un po’” di vento.
Da quel giorno però , quella parola, “caprina”, pronunciata dal secondo Ufficiale, significò per il personale di Coperta un segno di situazione avversa e sconosciuta, quasi ostile, perciò non la pronunciarono più.

I fatti precedenti sono successi a me, mentre ero al comando di una nave da crociera nelle Cicladi.
La forse lunga introduzione di questo scritto è frutto di una mia recente rivisitazione delle credenze marinare del passato. Tra queste, ve ne sono alcune che sono evidentemente ben radicate oggigiorno. Durante certe conversazioni, sulle navi mercantili inglesi del passato poteva capitare di pronunciare la parola “maiale (pig)”. Tale termine comune fu però bandito per molto tempo su quella flotta, semplicemente perché portava sfortuna. Orbene, se tale usanza ci sembra oggi ridicola, basta pensare però a quanto ho scritto prima sulla manovra di Mykonos: la superstizione esiste ancora e, anche se su gran parte delle navi le vecchie credenze sono criticate con un sarcastico sorriso, l’atteggiamento degli equipaggi è quello di non infrangere comunque una vecchia usanza, ovvero ci si comporta alla maniera “non ci credo, però lo faccio”.
Certamente non è questa la sede adatta per spiegare il complesso fenomeno della superstizione o della scaramanzia, limitiamoci perciò a comprendere come oggigiorno sono ancora spalmate certe credenze in un loro scenario ottimale, ovvero la nave, nell’arco della sua operatività.

Per iniziare
Sulle navi a vela, in fase di costruzione, si inserivano alla base (scassa) dell’albero di maestra delle monete d’argento. Tale usanza derivava dalla tradizionale posa delle monetine negli occhi o nella bocca dei defunti così che – una volta nel regno dei Morti – avrebbero pagato il passaggio a Caronte sul fiume Stige.

“Cerimonia della moneta” in occasione dell’inizio costruzione di una moderna nave da crociera

Ancora oggi durante la cerimonia in cantiere per la posa della chiglia della nave, ovvero l’inizio della sua costruzione, in un suo recesso vengono saldate una o più monetine che comunemente si crede siano portatrici di buon auspicio per la futura operatività della nave, ma originalmente, se essa affondava, “avevano la funzione” di ricompensare il passaggio nel Regno dei Morti di coloro che decedevano a bordo e che non potevano essere sepolti in terra ferma.

Appena la nave è ultimata, una cerimonia significativa è ovviamente il suo varo che culmina nell’infrangersi di una bottiglia di spumante nei pressi del “mascone di prora”, cosicchè il suo contenuto cada in mare.

Battesimo di una moderna nave da crociera a Montecarlo.
La bottiglia magnum di champagne si spacca nella murata.

I partecipanti all’evento temono che se la bottiglia non va in frantumi, può significare sventura per la nave e la sua gente. L’usanza deriva dal passato, quando si usavano tutti i mezzi possibili per mitigare il tempo avverso, per esempio versare vino in coperta o in mare. Pertanto, con l’aiuto della tecnologia, per evitare che la bottiglia non si rompa, sono stati oggi realizzati svariati metodi: un sommozzatore che emerge dal mare e la rompe lui stesso sul mascone, un filmato (o una videocamera) che riproduce la sua frantumazione alla platea degli invitati, seduti comodamente in una sala della nave o, addirittura, fatta collidere con lo scafo a guisa di pendolo da un elicottero! Tutti sappiamo che “l’incidente del battesimo” non preclude ovviamente la vita operativa della nave, ma sicuramente (ed ecco qui la superstizione) getta un’ombra di tristezza e sconforto sugli invitati alla cerimonia, tanto è vero che per liberare l’atmosfera da pensieri negativi, l’oggetto della sventura viene poi rotto comunque, in qualsiasi maniera disponibile.

In certe nazioni, durante la consegna al suo proprietario, la nave viene anche benedetta. Non mi ritengo superstizioso, però sono anche un marinaio e durante il varo di una nave alla quale ero al comando, chiesi al sacerdote di benedire tutti i punti nevralgici: la plancia, il locale timone, la sala macchine, la saletta equipaggio e passeggeri ed infine, la nave dall’esterno. Ricordo che appena scese in banchina, il prete s’affrettò ad andarsene osservandomi con curiosità, forse riflettendo sul fatto che bastava benedire quell’unità in un punto solo… devo però confessare che effettivamente non ebbi gravi problemi con quell’unità. Quella volta, credo però di aver esagerato nel considerare l’incombente eventualità della sorte avversa.

Durante le operazioni
La prima cosa che mi sorprese appena imbarcai sulla prima nave passeggeri era che non esistevano lance di salvataggio con il numero 13; lo stesso per l’identificazione delle cabine: non ne esisteva una nel cui numero comparisse il 13.

La scialuppa 13 su questa nave non esiste!

Le sue origini sono molto remote, la più comune è quella che tale cifra si riferisce al numero totale dei commensali nell’Ultima Cena. Questa superstizione è ancora oggi molto seguita, specialmente nella tradizione anglosassone.

Chi non ha visto – generalmente in Mediterraneo – le variopinte imbarcazioni da pesca che hanno gli occhi dipinti sui masconi prodieri? L’occhio del dio Horus sulle imbarcazioni egiziane, le preservava dalla magia occulta, mentre in altre culture, le proteggeva dai vari pericoli del mare.

Composizione grafica che sovrappone l’occhio di Horus sulla cubia di una nave.

A questo punto serve una riflessione: la nostra terminologia nautica definisce “occhio di cubìa” l’apertura nel mascone di prora dove scorre l’ancora e la sua catena. E’ sicuramente possibile che tale termine abbia tratto origine proprio dall’occhio dipinto sulle navi antiche poiché si trova pressoché nella stessa posizione dello scafo. Quest’esempio ci dice che certe credenze, anche se non più seguite, possono trasformarsi oggi in parole, atteggiamenti, tecniche o stili di vita d’uso comune.

Da giovane ufficiale ho sentito qualche volta parlare di “Capitan Tempesta”: era il povero malcapitato di turno che – vittima delle maledette coincidenze – incontrava spesso tempo cattivo e quindi la gente mormorava. Cioè non bastava che lo sfortunato Capitano si preoccupasse di fronteggiare le burrasche, ma doveva anche subire le conseguenze di una sventurata ed ingiusta reputazione. Va qui detto che il tempo avverso è sempre molto sentito dai marinai: sulla costa quando succedono delle criticità dovute alle tempeste si dà la colpa alle previsioni, alle autorità, oppure infine si può scappare se si è avvisati in tempo. In mare ciò non è possibile e tale frustrazione generava la voglia interiore di prendersela con qualcuno. Basta ricordare un detto: “Tempi da cani danno addosso ai Capitani!” (ho usato un eufemismo) che, se si paragona al giorno d’oggi, ci conferma che quando una nave incontra tempo cattivo, le scelte fatte dal Capitano per fronteggiarlo non vanno mai bene, né verso i passeggeri, né verso l’equipaggio.

Ancora oggi, l’equipaggio non porta ombrelli a bordo, anche perché non avrebbe senso usarli sui ventosi ponti esterni. Quest’usanza nasce dal fatto che gli oggetti di colore nero (valigie, bauli, ecc.) erano sintomo di sventura a bordo delle navi, forse perché legati al colore del lutto. Al contrario invece, nelle indesiderate giornate di pioggia, i passeggeri dispongono di ombrelli multicolori per quando escono in visita nei porti di toccata. Nel tempo però, questa credenza va ormai scomparendo.

Chi non ha mai visto un allegro cagnolino saltare sulla coperta di una chiatta o di un rimorchiatore oppure lo stesso Comandante Tarabotto, mentre onorava l’Italia col Nastro Azzurro conquistato dal Rex nel 1933 che viaggiava con la sua cagnolina Lilly? Gli animali domestici e soprattutto cani e gatti, a bordo vengono chiamati “mascotte”, cioè portafortuna. Questa tradizione è oggi ancora molto sentita poiché la compagnia di un animale diventa importante quando si è in mare aperto e, soprattutto, lo stesso acquisisce la simpatia di tutto l’equipaggio, diventando così foriero di buoni auspici. E chissà come mai, solitamente, proprio il Comandante è il suo padrone…

La moda dei tatuaggi, come è noto, è stata originata dai marinai. Nel passato, chi imbarcava si faceva applicare sulla pelle delle icone scaramantiche o motti indelebili così da preservagli la vita e la salute in quei difficili frangenti, quando le navi affondavano facilmente: i tatuaggi erano cioè degli amuleti illustrati. Un’altra moda, quella dell’orecchino, ebbe origine perché – in caso di decesso – lo stesso sarebbe servito a pagare il passaggio sul fiume del Regno dei Morti. Le monetine infatti (come citato prima) applicate sugli occhi o in bocca al defunto sarebbero scivolate via durante l’affondamento della nave e “sarebbero andate perse”, mentre invece l’orecchino era un prezioso che rimaneva ben saldo al corpo dello sventurato marinaio.

Un’altra “causa” di tempo cattivo o malasorte a bordo era quella di non pagare i propri debiti. I francesi estesero questa credenza ai marinai “insolventi” che frequentavano lupanari e bettole dei porti; chi non saldava il suo debito col piacere era maledetto e provocava sventura. La stessa battuta veniva pronunciata ancora tempo fa con umorismo quando si incontravano spesso cattive condizioni meteorologiche.

Ancora oggi si dice che sia di cattivo auspicio abbattere un gabbiano o un albatross. E’ probabilmente perché la loro carne non è granchè gustosa, visto che sono chiamati “gli spazzini del mare”, anche se anticamente si riteneva che le anime dei marinai deceduti risorgessero in quegli uccelli.

Per concludere questa visita ad alcune superstizioni marinare d’oggi, viene spontaneo considerare una nave come una complessa comunità viaggiante, che pertanto rappresenta una forte identità sociale. A differenza di aerei, treni, autobus, tale mezzo di trasporto ha perciò un’anima: basta pensare alle letterature romantiche dedicate ai momenti di quando le vecchie unità vengono avviate alla demolizione.
Una delle componenti di quell’anima è anche la l’immortale superstizione marinara.=

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