
Le navi sono da sempre piccoli mondi galleggianti, comunità temporanee che uniscono chi è a bordo con una rotta e un destino. Parlare una lingua condivisa non è solo utile per lavorare con efficienza e produrre guadagno, ma è fondamentale per garantire la sicurezza in generale e rendere più serena l’esperienza del viaggio, tanto per gli ospiti quanto per il personale.
In questo vasto argomento, crediamo sia interessante raccontare dei nostri velieri di fine Ottocento, quando marinai ed emigranti provenivano da paesi diversi e parlavano lingue e dialetti lontani tra loro. Per capirsi, erano costretti a inventare soluzioni pratiche e ingegnose come il “pidgin” di bordo. Scopriremo così come – in mare aperto – la necessità di intendersi abbia dato vita a un linguaggio sorprendentemente semplice, eppure efficace.
Diverse navi camogliesi furono coinvolte nell’enorme fenomeno dell’emigrazione europea verso le Americhe. Circa il 75% della popolazione italiana di allora era illetterata, parlava esclusivamente il proprio dialetto e aveva avuto scarso o nessun accesso all’istruzione. Durante le lunghe traversate, la comunicazione tra persone che non usavano la stessa lingua diventava non solo inevitabile, ma anche essenziale per la sopravvivenza e la vita in comune.
Alloggi emigranti su un veliero a fine ‘800
E’ qui che nasceva, spontaneamente, una forma di comunicazione detta pidgin: un idioma di confine e di necessità, nato in situazioni di contatto tra persone che non condividevano la stessa lingua. Era una parlata “ponte”, semplice, funzionale, senza grammatica complessa, né regole fisse: bastavano alcuni termini base per farsi intendere; conteneva parole italianizzate, molto rudimentali, prevedeva una gestualità marcata.
Il primo pidgin documentato nacque in Cina intorno al 1800, quando mercanti britannici e commercianti locali crearono un modo efficace per scambiarsi informazioni d’affari. Nel tempo, ne nacquero (o erano nati) molti altri. In area mediterranea, il più noto fu il sabir, chiamato anche lingua franca, cioè usata da europei, arabi e turchi. Era una parlata mista, che fu attiva fino all’Ottocento, usata da marinai, mercanti, diplomatici e schiavi. Possiamo quindi ipotizzare che il pidgin parlato a bordo dei velieri dell’emigrazione fosse una fusione semplificata di vari dialetti italiani, con l’aggiunta di parole straniere imparate durante la traversata e termini chiave legati alla sopravvivenza: cibo, malattia, paura, tempo, il tutto completato da una gestualità molto marcata.
Inoltre, quando i velieri camogliesi salpavano con l’intero equipaggio italiano già al completo, poteva succedere che durante i lunghi viaggi oceanici alcuni marinai si ammalassero o fossero costretti a sbarcare. A quel punto venivano sostituiti con personale straniero, spesso imbarcato nei porti di scalo. Così, a bordo, le barriere linguistiche crescevano e la comunicazione diventava ogni giorno più complicata.
In definitiva diciamo che a bordo dei nostri velieri:
•gli equipaggi parlavano tra loro in “italiano” o in dialetto regionale, e la stessa lingua veniva usata con eventuali ospiti di riguardo;
•gli ufficiali, in particolare nei porti esteri, comunicavano anche in francese o inglese, ed erano pratici delle cosiddette “lingue franche”;
•gli emigranti parlavano tra loro il pidgin marinaro detto sopra, fatto di parole essenziali caratterizzate dai propri dialetti, utile per orientarsi, lavorare insieme e sopravvivere in uno spazio prima ristretto e poi immenso.
1880. un veliero arriva a New York
Vediamo un esempio ipotetico di pidgin marinaro di ‘fine Ottocento”:
“Dimane nusci arivamu a Nu Iorc! U zì meu vene a spettacci a Ellis Island! Ma a muglieta mia g’ha ‘a freve… ‘Stu friddu de dicembre ghe fa mä assæ!” (Tutto sottolineato da ampi gesti).
Domani arriviamo a NY. Mio zio viene ad aspettarci a Ellis Island! Purtroppo mia moglie ha la febbre… Il freddo di dicembre le fa molto male!)
Lo sbarco a Ellis Island (NY)
L’esempio di sopra è unico, non sarebbe mai stato ripetuto negli anni a venire. Era quindi una parlata solo orale per necessità, priva di grammatica codificata e di un vocabolario ufficiale: non una lingua creola, dunque, ma un sistema transitorio, che si estingueva con la generazione che l’aveva usato. Il pidgin spariva cioè una volta che gli emigranti sbarcavano e si separavano, quando ciascuno tornava alla propria parlata d’origine.
E quei mesi trascorsi in mare lasciarono il segno. Il viaggio contribuì, seppur in parte, alla lenta e frammentaria italianizzazione linguistica di molti emigranti. Molti avevano imparato parole “comuni” – spesso legate alla vita pratica, alla famiglia, al lavoro, al cibo, al tempo atmosferico – che si sarebbero rivelate utili nei paesi di arrivo.
Una moderna nave da crociera – la MSC “Magnifica” – foto di Vincenzo Merlo
Ancora oggigiorno, il fenomeno delle “lingue di bordo” rimane molto radicato. Soprattutto sulle grandi navi da crociera, dove si contano anche più di cinquanta nazionalità differenti tra ospiti e personale, oltre alla lingua ufficiale prevista dalla legge, si sente parlare per esempio di goblish o di spanglish. Inoltre, dipendentemente dal servizio della nave e dal suo itinerario, svariati sono i neologismi dei marinai… ma questo, è un altro argomento.=
Bruno Malatesta
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(- fonte: Wikipedia; – immagini archivio Capitani Camogli AI)































