Gabbiani in controsole (archivio Capitani Camogli)
Il mare non è mai soltanto acqua e vento. È costellato di ali. Profili che fendono l’orizzonte, che effettuano continuamente incredibili “riattaccate”, compagni silenziosi dell’esistenza dei marinai.
Il celebre airone “Pippo” del porto di Camogli (archivio Capitani Camogli)
Da noi ammiriamo gabbiani, aironi, forse pochi altri. Ma i dipinti dell’Ottocento li ignorano: nei lavori del Museo Marinaro o negli ex-voto del Boschetto a Camogli vedrai vele, buriane, naufragi. Mai un gabbiano. Forse per non togliere la scena al veliero, sovrano indiscusso dell’immagine. O forse per timore scaramantico: l’inserimento di una procellaria poteva apparire come un presagio avverso.
Il comandante Carlo Gatti, già presidente della Società Capitani di Camogli, ha scritto che un gabbiano vale più di un meteorologo. Se vola verso terra, arriva burrasca. E se lo osservi da vicino, ti parla con gli occhi, con il corpo, con le ali: più eloquente di qualunque strumento.
Aerodinamicamente perfette: le sule ((archivio Capitani Camogli)
Ancora oggi, su una nave che si stacca dalla costa e resta sola sull’orizzonte, chi è a bordo cerca sempre quelle ali che completano la vastità e la potenza del mare. E per i marinai era lo stesso. Nel Nord, incontravano le sule, i loro tuffi rapidi e infallibili non erano solo spettacolo, ma indizi. Avvisavano dove si trovava il veliero. O annunciavano il cambio del tempo.
Pulcinelle di mare alle Orcadi (archivio Capitani Camogli)
C’erano anche le graziose pulcinelle di mare. Nessuno osava far loro del male: le rigide superstizioni non perdonavano chi colpiva i loro messaggeri.
A Sud dominano gli albatross, spiriti immensi di Capo Horn. Non a caso i doppiatori di quel promontorio, audaci uomini di vento, portavano il loro nome come titolo d’onore. Tra loro c’era anche il camogliese Prospero Figari, detto Sciabecco.
Sterne Inca riposano sui cavi d’ormeggio d’una nave in Perù (archivio Capitani Camogli)
Nei mari caldi ecco allora stormi di sterne Inca leggere come soffi, o fregate oscure che fendono l’aria come lame sinistre, ma anche pellicani solenni che si gettano in mare con un tonfo regale.
Quelle ali non erano solo presenze: hanno anche ridato vita alla terra. Nell’Ottocento, dal guano raccolto con fatica sugli scogli arsi dal Sole, l’agricoltura europea trovò salvezza, campi esausti tornarono a fruttificare.
Gli uccelli marini erano anche strumenti di navigazione. Nel Settecento si tenevano i corvi nella coffa di trinchetto: in tempo di nebbia si liberavano per poi seguirne il volo, così da ritrovare terra. Da quella pratica nacque il nome inglese del posto di vedetta: crow’s nest.
Dall’alto, una sula osserva le onde e la nave sotto (Archivio Capitani Camogli)
Quelle erano ali come strumenti, ali come presagi, ali come compagne. I naviganti lo sapevano: chi solca il mare non è mai solo, con loro c’è sempre qualcuno con la stessa anima che osserva e custodisce. Forse, il legame più profondo sta in queste parole di Gatti:
“Il gabbiano vive come noi. Deve nutrirsi, veleggiare, riposare, scappare a terra quando il vento rinforza. Ha le nostre stesse paure, gli stessi bisogni, le stesse incertezze. È per questo che ci somiglia. È per questo che non se ne va mai.”=
Bruno Malatesta
(- immagini Archivio Capitani Camogli;
– alcune citazioni di Carlo Gatti sono tratte da “Le storie nella scia” di E. Andreatta, C. Gatti, B. Malatesta, B. Sacella e P. Schiaffino).































