Oggigiorno molti aspetti della gestione delle navi sono standardizzati, cioè si tende giustamente a istituire le stesse procedure anche per navi di differente bandiera. Lo scopo è quello di facilitare la familiarizzazione di un* nuov* componente d’equipaggio quando imbarca su un’unità (diversa dalle precedenti) per la prima volta.
Soprattutto, la comunicazione di bordo è generalmente in inglese poichè, come ben si immagina, non esistono più grosse navi da crociera dove 1000-2000 persone d’equipaggio parlano la stessa madre lingua.
Questa doverosa e seriosa introduzione è necessaria per comprendere certe simpatiche atmosfere che si vivevano invece molti anni fa a bordo delle navi passeggeri, dove gran parte degli ufficiali di coperta e macchina provenivano dalle due riviere liguri.
Erano sicuramente gli “ultimi guizzi” di quel comunicare in dialetto lasciatoci in eredità dai naviganti dei velieri. Ma attenzione, il relazionarsi in genovese (come certamente in altro dialetto) non era solo per situazioni di confidenza, ma assumeva anche altri aspetti. Vediamoli con divertimento.
Nave da crociera degli anni ’70 in navigazione nei Caraibi
Intanto l’ambiente di lavoro. Tutte le navi da crociera hanno un lungo “carōggetto” che – nella zona equipaggio – va da prora a poppa. In quello spazio vi si trovano uffici e officine, ripostigli e riposterie, accessi ai vari locali di bordo. Insomma c’è un continuo viavai di gente indaffarata, qualcuno che parla con un collega, chi sta riparando una tubazione. Era perciò consuetudine chiamare quel percorso “Via Prè” (con apposite targhe “toponomastiche”), nome che faceva sorridere chi lo percorreva, ma dimostrava anche la fusione del genovese con la nave stessa. Un altro spazio dedicato alla nostra riviera era un corridoio dove alloggiavano gli ufficiali, tra i quali si trovavano molti Camoglini, anche quel percorso – con doverosa targa – si chiamava “Carōggetto di Camogli”.
Visto che l’ambiente ligure era stato “inscenato”, mancava il debutto dei personaggi. Quasi si riviveva ogni giorno quel clima un pò da pièce teatrale, dove una situazione di routine assumeva delle tinte più accentuate se gli “attori” si esprimevano in dialetto. Quelli che avevano diritto di usare il genovese come lingua schietta ed indiscutibile, erano solo e ovviamente gli “ufficiali superiori”, cioè il Comandante, Direttore di Macchina e i loro subalterni, Comandante in 2a e Capo Macchinista.
Manovra d’ormeggio nel Canale di Panama
Ne ebbi conferma su una nave passeggeri che – negli anni ’70 – percorreva quelle rotte chiamate comunemente “roud trip”, cioè che circumnavigavano il globo. Partivamo dall’Inghilterra, verso Est, diretti in Australia via Capo di Buona Speranza; il ritorno proseguiva – sempre verso Est – attraversando il Pacifico e il Canale di Panama per ritornare al punto di partenza. Si può ben immaginare tutto quello che si impara facendo quei viaggi!
Quella nave era l’emblema della comunità itinerante. Come conseguenza, un* passegger* che effettuava un viaggio ampio mezzo mondo, voleva anche avere delle garanzie sul biglietto pagato. In breve, successe che un ospite inglese, da giorni si lamentava della qualità del cibo servito in ristorante. Risultate inutili le spiegazioni del personale addetto alla ristorazione e all’ufficio del servizio passeggeri, chiese di incontrare il Comandante.
Ero Terzo Ufficiale a quel tempo e dovevo partecipare alla riunione del passeggero con il Comandante per annotare gli estremi di quell’incontro. Oltre a me c’era anche il Comandante in 2a, il quale era ovviamente ben informato sulla lamentela; il Comandante, che inizialmente era all’oscuro di quella situazione, voleva ovviamente saperne di più.
Ci accomodammo nell’ufficio del Comandante, che era genovese come il Comandante in 2a. Tra i due esisteva ovviamente uno spirito di collaborazione professionale e – forse – amichevole. Il passeggero, accompagnato dalla moglie, era piuttosto determinato a esporre i propri reclami. Il Comandante, che era poco familiare con quello specifico problema, si rivolse al suo subalterno e gli chiese: “Cose ō vêu?” (cosa vuole?). Il genovese in quel caso venne usato come “codice” per non far intendere all’ospite le comunicazioni tra i due ufficiali, parlare italiano sarebbe stato rischioso. Ovviamente il Comandante risolse infine le inquietudini del passeggero e tutto fu risolto. Oggigiorno, è considerata giustamente una grave scorrettezza il discorrere tra persone in una lingua comune di fronte ad un’altra che quella lingua non parla.
Unità da crociera in Messico, anni ’80
In un’altra occasione, l’attore di turno, il Comandante in 2a, era furioso. Si dovevano organizzare numerosi lavori a bordo di una nuova nave in un porto d’Oriente e lui non riusciva a trovare nessuno. Soprattutto c’era da sistemare il servizio mensa per l’equipaggio e regolare l’imbarco dell’acqua dolce. Io, che ero appena smontato dal ponte di comando, fui la vittima incolpevole del suo sfogo e della sua disperazione:” Ō chêugo ō dorme, ō carpentê ō l’è in cabin-na che ō leze!” (Il cuoco dorme, il carpentiere è in cabina che legge). Da quella volta, la frase venne ripetuta anche da altri ufficiali quando si voleva significare che certi subalterni si erano imboscati.
Durante un imbarco nei porti del Giappone negli anni ’70, mi ero ritrovato – benchè la moda d’allora lo consentisse – una vistosa “cōffa” di capelli. Dovevo tagliarli e sotto consiglio del nostro agente marittimo, mi feci portare dal parrucchiere con un taxi che aveva l’apertura automatica delle portiere e con autista “guantato” in bianco. Il negozio del parrucchiere era immacolato, al suo interno effettuavano anche manicure e altre attività estetiche. A gesti, chiesi per uno shampoo e un taglio normale di capelli. Fu il più accurato lavoro che mai abbia ricevuto in un negozio di quel tipo, mi curarono anche le mani. Quando stavo per pagare l’equa somma di yen, il parrucchiere mi fece intendere che doveva “finalizzare” quel taglio. Non capivo di cosa si trattasse e, una volta riseduto, con le mani giunte iniziò a colpirmi la testa come per smussare il profilo del cranio. Probabilmente era un sistema che puntava a modellare definitivamente il taglio appena effettuato; non c’era dubbio però che quei colpi erano oltremodo fastidiosi, quasi dolorosi. In definitiva soddisfatto, ritornai a bordo, dove consigliai comunque ai colleghi quel parrucchiere. Anche il Comandante, della Riviera di Levante, desiderava un’aggiustatina ed infatti, il giorno dopo andò in quel negozio.
Era l’ora di pranzo quando tornò. In saletta ufficiali, lo stavamo aspettando per iniziare a mangiare. Il Direttore di Macchina, della Riviera di Ponente, gli chiese subito: “Allōa… Comandante?” “Eehhh…” rispose lui con un gran sospiro: “Sōn andœto da ō perrûcchê à piggiâ di pattōin!” (sono andato dal parrucchiere a prendere delle sberle). A quella notizia scoppiammo tutti a ridere, brindando così alla prima esperienza nipponica.
Il ponte di comando di una nave da crociera negli anni ’70
Eravamo in Grecia, sempre negli anni ’70. Si doveva trasferire una vecchia nave passeggeri a Miami, così da ingrandire la “nostra” compagnia di crociere. Erano i tempi nei quali conveniva ancora riadattare certe unità desuete e farle fruttare per molti anni a venire.
Al Pireo, avevamo costituito la base di un manipolo di Capitani Coraggiosi (nel vero significato del termine), dei quali una buona parte erano Camoglini. Erano anche i tempi dei colpi di mano, ai quali noi di Camogli, abbiamo sempre partecipato con grande trasporto emotivo e orgoglio tradizionale. Ed erano pure i tempi che le “uniformi” degli ufficiali non erano poi così uniformi: pareva un film di Fantozzi.
C’è chi indossava uno splendido Burberry, chi una classica Barracuta, chi una giacca scamosciata e chi – correttamente – vestiva finalmente un’elegante divisa blu-marina con relativi gradi (giri di bitta) dorati.
Quando la nave fu in procinto di partire, si verificò un inconveniente: un’ufficiale di Camogli, Rossino, doveva imbarcare all’ultimo momento! Il Comandante, anche lui della Riviera Ligure, chiese informazioni all’agente marittimo che fine avesse fatto quell’ufficiale. Dalle ultime informazioni, pareva che Rossino fosse arrivato in orario ad Atene e poi al Pireo, ma poi le sue tracce s’erano perdute.
I minuti passavano, la nave “era sulle macchine”, pronta a mollare gli ultimi cavi che la tenevano vincolata al suolo ellenico. Ad un certo punto, il Comandante, nervoso, sbottò: ” Ma û Rossino cose ō se credde, che ō Pireo ō segge cōmme Camōggi?” (ma Rossino cosa crede, che il Piero sia grande come Camogli). Appena terminata quell’esclamazione, Rossino finalmente comparve – trafelato – vicino allo scalandrone e – con buona pace di tutti – la nave potè partire verso la Florida.
La prua di una nave da crociera negli anni ’70
Siamo giunti quasi al termine di questa rassegna di ricordi “linguistici”. Concludiamo con qualche breve esempio significativo sull’utilizzo del nostro parlare sulle navi passeggeri di un tempo.
A bordo di un’unità da crociera di seconda mano, prima del viaggio di trasferimento al cantiere di riammodernamento, parte dell’equipaggio desiderava sbarcare, vuoi perchè il cantiere era in Oriente, vuoi perchè la nave doveva essere inattiva per molti mesi. Tra coloro che chiesero di interrompere il contratto di lavoro, c’era un “operaio meccanico” genovese, sempre molto educato e distinto nei modi e nel vestire. Gli chiesi perchè se ne voleva andare. La sua risposta fu chiarificatrice: “…’sta barca chi, à me’ stà un pò streita!” (questa nave mi và un pò stretta).
Molte unità dell’allora iniziata attività delle crociere avevano la gestione armatoriale negli Stati Uniti, soprattutto nei porti della California e in quelli della Florida. Era quindi consuetudine che l’armatore o il suo rappresentante salissero a bordo alla fine/inizio di una crociera verso il Messico o i Caraibi. Lo scopo di quelle visite era lo scambio di impressioni col Comandante sull’andamento del viaggio appena terminato e i commenti su quello che stava per iniziare. Gli argomenti trattati erano molteplici: come era andato il servizio passeggeri, eventuali problemi con l’equipaggio, la manutenzione della nave, eccetera. C’era quindi quella nuova fusione tra un navigare antico e l’imprenditoria moderna. Appena l’armatore sbarcava, il Comandante ligure convocava il suo subalterno, cioè il Comandante in 2a, ligure pure lui, per relazionarlo su quello che era stato discusso.
Il Comandante disse all’ufficiale: “Ō l’è vegnûo à bordo ō John. Ō dixe che à pittûaziōn in sciä pōppa à deve ëse megioâ! ” (è venuto John a bordo. Dice che la pitturazione a poppa deve essere migliorata).
La bussola di una nave da crociera negli anni ’70
In un’altra situazione, questa volta infelice, si offese una passeggera americana. I protagonisti erano però dei giovani ufficiali, i quali ritenendo di non essere intesi, fecero degli inopportuni apprezzamenti in dialetto sull’ospite. Lei li fissò e disse loro “Ho capîō tûtto, mè messiavo ō l’ëa de Zena!” (ho capito tutto, mio nonno era di Genova). Fu molto gentile a non sporgere reclamo verso quei due, però il fatto ebbe come conseguenza l’adozione di un comportamento ineccepibile sia con ospiti o membri d’equipaggio di altre nazionalità.
Per ultima, l’affermazione dell’equipaggio, appena qualcuno di loro (che comandava) entrava in saletta per chiedere quali fossero le novità (a quel tempo Internet non’era): “…cose dixan?” (cosa succede?).
Riteniamo sia molto rilevante il fatto che certe battute in dialetto siano vive nella mente ancor oggi. “Facendoci” caso poi, erano state tutte pronunciate da persone alte in comando; chissà in quali altre occasioni il genovese era usato, forse però non era meritevole di memoria.
Consideriamo quell’ambiente ormai defunto sulle navi passeggeri. =