Riportiamo qui di seguito un significativo scritto di Gio Bono Ferrari, dedicato ad un unico e poetico cimitero della nostra Riviera.
San Michele di Pagana, l’antica insenatura del Tigullio che conobbe più d’una volta e rintuzzò le zannate dei pirati di Dragutte il “Rosso” e quelle del “Corsaro Rinnegato”, fu – fin da antichi tempi – patria di marinari e di esperti navigatori. Gli uomini del suo entroterra erano ottimi agricoltori, specializzati nell’olivicoltura e rinomati persino nella Fontanabuona per sapere egregiamente “pastenare” boschi e rovereti e zone pietrose ed impervie.
La pittoresca marina di San Michele di Pagana (Rapallo)
Ma quelli della marina, gli uomini che nacquero e vissero nel pittoresco groviglio delle case e casette poste in riva al mare, proprio nell’arco lunato del piccolo golfo, furono sempre marinai e nostromi e “patronus” di barche. Erano abilissimi pescatori di corallo sulle coste della Tripolitania e della Tunisia. Già nel 1700, in primavera, le loro barche coralline se ne partivano, benedette dal vecchio pievano, per le coste d’Africa. E non ritornavano che a novembre per essere almeno a casa per la novena dei Morti.
Gente dura e di fegato, rotta a tutte le lotte e alle vitacce delle coste d’Africa, ove quasi sempre serpeggiava la peste nera. Uomini audaci che tenevano il mare con dei barchi da 40 tonnellate da aprile a novembre. Sapevano usare le colubrine da murata, gli archibugi e le ascie di abbordaggio quando si trattava di difendersi da quei barbareschi che, felloni, non volevano riconoscere il “permesso” scritto che ogni barca possedeva, il “firman”, che le autorità del Bey di Tunisi davano – dietro compenso di ottanta piastre – ai pescatori di Liguria per la libera ricerca del corallo. Gente arrischiata e decisa, che aveva più d’una volta – con le asce – mozzate le mani ai pirati che tentavano di arrampicarsi sulle loro barche. Ma che quando ritornavano con le stive piene di un buon raccolto di corallo, pensavano subito, prima ancora che alle mogli (alle quali portavano i bianchi “zendadi” e i “pessotti” acquistati dai levantini di Malta), alla propria Chiesa, alla quale donavano la ottava parte del prodotto.
La Chiesa di San Michele
Fu così che la Chiesa di San Michele, di un piccolo borgo, potè già, fin dal 1700, farsi bella e arricchirsi di damaschi e di broccatelli d’oro. Perchè il tempio di questi vecchi navigatori è veramente egregio per opere chiesastiche. V’è, se non andiamo errati, un bel San Pietro del Ribera ed un “Ecce Homo” della scuola del Guercino o dei suoi migliori allievi si conservano due grandi tele a soggetto biblico. E poi ancora la bella e suggestiva “Natività” di Luca Giordano e l’altro squisito lavoro attribuito a Guido Reni, “l’incontro di Maria con S. Anna”. Nella cappella di sinistra, poi un vero gioiello: la pala d’altare di Van Dick, dalla quale si staglia la stupenda figura d’un Cristo trattato magistralmente in scorcio. E poi ancora due piccole tavole che la tradizione dice portate dall’Olanda da due vecchi navigatori del Borgo, Solari e padron Costa, due quadretti fiamminghi, un pò primitivi, ma di esimia fattura.
Quando dopo tante e tante campagne – più di cento – le “coralline” andarono in disarmo causa la caduta dei prezzi dei rossi zoofiti raggiati, altri navigatori di Pagana subentrarono a far bella la Chiesa del borgo. Perchè nello stesso non vivevano soltanto dei pescatori di spugne o di corallo, ma anche degli armatori di bastimenti da gran cabotaggio.
Di Capitani al lungo corso, di lupi di mare per le navigazioni oceaniche, uno ve ne fu che merita veramente di essere ricordato. Si chiamò in vita il Cap. Giuseppe Ferrari. Aveva fondato famiglia a San Michele, ove ancor nel 1939 vivevano le sue figliuole. Egli proveniva però da una schiatta marinara camogliese, modesta e tenace, che da più di tre secoli viveva sul mare e del mare.
Il padre del nostro lupo di mare, Cap. Nicolò Ferrari, fu uno dei più oculati armatori della campagna di Crimea, sagace mercatante e intrepido Capitano. Con la moglie, Maria Oneto e la figliuolanza, navigò per molti anni sulle rotte del Mar Nero e dell’Azov, al comando di un bastimento che aveva fatto costruire a Recco e che figura nella prima lista degli affigliati a quella che fu la prima “Mutua Marinara”, geniale creazione dei camogliesi, copiata poi da tutto il mondo.
La tomba del Cap. Giuseppe Ferrari nel cimitero di San Michele
Ritornando al Cap. Giuseppe Ferrari, colui che da anni se ne dorme all’ombra degli svettanti cipressi del piccolo e poetico Cimitero di San Michele, comandò sempre, si può dire tutta la vita, i belli e grandi bastimenti paterni. Viaggi di Rangoon e di Macassar e lunghe traversate al Pacifico, per la caricazione del guano a Las Chinchas e alle isole del Lobo. Ebbe anche una parentesi di attività fluviale sui grandi fiumi dell’Argentina che navigò al comando di un “pailabot”. Successivamente però, la passione per le navigazioni dei mari aperti e per le sconfinate distese degli Oceani lo prese di nuovo. Si mise a risolcare i mari. Rivide ancora i mari d’Australia e Manilla e Ackiab e la lontana Hong-Hong.
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Poi, finalmente, fu il ritorno alla sua casa di San Michele, quella posta sul piazzale della Chiesa. Ma il riposo in terra ferma non fu lungo per il buon lupo di mare di Pagana. Perchè se ne andò quasi subito. Dal piccolo Cimitero ove riposa il suo spirito buono ode ancora – e udrà sempre – la canzone giornaliera del nostro bel mare di Liguria. E ascolterà, forse, il misterioso e sommesso richiamo di tutti quelli che in questo mare – Mare Nostrum – lasciarono la vita a compimento del proprio dovere, con il sempre silenzioso eroismo degli uomini di mare.=
(Tratto da “Capitani e Bastimenti di Liguria/Levante” di Gio Bono Ferrari – Immagini di Bruno Malatesta)