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Lato oscuro della vela?

A prima vista, parlare dell’impatto ambientale dei velieri può sembrare una follia; dopotutto, chi mai si preoccupava dell’ambiente nell’Ottocento? Eppure, anche allora, alcune abitudini e pratiche delle navi a vela lasciavano il segno sulla natura.

1880: veliero camogliese in costruzione nel ponente ligure: a sinistra, l’armatore Fortunato Ottone
(tratto da “La Marina Mercantile di Camogli di GB.R. Figari e S.B. Bonuccelli)

All’epoca, c’erano circa 20.000 grandi velieri che solcavano i mari del mondo. Non è un numero a caso se si pensa che nel 1870, la sola Camogli vantava i celebri 1.000 velieri e per costruire quei giganti a vela servivano quantità enormi di legname. I cantieri navali più attivi sulla nostra costa – Varazze, Sestri Ponente, Chiavari – si rifornivano dalle aree pre-appenniniche, ma anche dalla Corsica, dal Delfinato e dalle Alpi Marittime. Non era però una corsa sfrenata al disboscamento; già dal Medioevo, l’uso delle foreste liguri per le costruzioni navali era regolato da norme precise, così da evitare un eccessivo sfruttamento del patrimonio boschivo. 

A Genova, l’Arte dei Bancalari, una corporazione artigiana, si occupava di garantire una gestione oculata del legno. Questa tradizione di controllo proseguì fino all’Ottocento, quando i Bancalari (bancâ?) si fusero con i Maestri d’ascia dei cantieri navali. Genova aveva in porto persino un “pontile del legname”, cioè un molo dedicato allo sbarco e allo smistamento del prezioso materiale.

Poi c’era il movimento della zavorra. I velieri, quando erano scarichi, imbarcavano sacchi di sabbia (o sfusa) per mantenere la stabilità messa a dura prova dal vento in mare aperto. Dove finiva tutta quella sabbia quando la sbarcavano? Veniva distribuita sulle spiagge vicine, modificando così la forma di certi litorali. A Genova, la “Compagnia dei Minolli” si occupava di questo maneggio, trasportando la sabbia dalle navi alla costa (Voltri, Arenzano) a bordo dei tradizionali “leudi” (vedi articolo).

Infine, va detto che i velieri gettavano i loro rifiuti in mare, praticamente senza nessun controllo; in effetti bisognerà attendere il nostro tempo per non considerare più il mare un’immensa discarica.
Comunque sia, i materiali di scarto del periodo erano prodotti naturali: l’abbondante cordame era composto da fibre vegetali, poi c’erano residui di catrame e pece, molto usata per il calafataggio delle coperte e delle tughe, infine pezzi inutilizzati del legno stesso. Facevano eccezione le pitture composte anche da piombo, usate per proteggere lo scafo dalle alghe, ma tossiche per l’ambiente marino. Al posto delle pitture, per proteggere la carena si preferirono i fogli di rame, che si dimostrarono più duraturi ed efficaci, tanto che furono largamente adottati su quasi tutte le grandi navi a vela.
Dove si estraeva il rame nei nostri dintorni? I principali giacimenti erano nelle miniere medievali di Libiola, nel comune di Sestri Levante e Monte Loreto nel comune di Castiglione Chiavarese.

In sintesi, il mondo dell’Ottocento non era certo ‘green’ come lo intediamo oggi, ma l’impatto ambientale dei velieri risultava mitigato dall’uso di risorse naturali, spesso gestite in modo regolamentato e consapevole. Questa gestione non mirava certo a proteggere l’ambiente, ma piuttosto a sostenere un progresso industriale controllato; forse era quella la convinzione che sostenne lo sfruttamento controllato (diremmo sostenibile) dell’epoca.

Oggi, guardando al passato, possiamo affermare che l’industria marittima dell’Ottocento ha lasciato perciò un’impronta ambientale relativamente modesta: riusciremo a fare altrettanto per le generazioni future?

(notizie tratte da Wikipedia)

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