Dal rilassante riparo del suo ombrellone, Anna scrutava l’orizzonte di Camogli. Dopo qualche ora di quel rovente pomeriggio sarebbe arrivato il resto della sua famiglia per passare ancora qualche giorno di Riviera insieme.
Complici i suoi earpod, passava compulsivamente dalle atmosfere di Michael Franks ai podcast dei romanzi di mare, cioè le sue grandi passioni.
La spiaggia di Camogli ad agosto, dopo il tramonto
Fu sicuramente quella temperatura insopportabile che la isolò dal resto dei chiassosi bagnanti, anzi fu vittima di un vero blocco disfunzionale. I suoi occhi focalizzarono un elegante ketch – al largo del Castellaro – che faticava a muoversi in quella bonaccia quasi irreale. Nelle sue orecchie, una voce intima e giovane le raccontava nel frattempo cosa succedeva alle navi a vela di Camogli quando si trovavano nella zona equatoriale, anch’esse vittime delle famigerate calme.
Anna viveva quelle sensazioni in diretta. Il podcast continuava la sua divulgazione affermando che a differenza di quella di Camogli che è causata da una bolla di alta pressione, la bonaccia dell’equatore ha origine da aria che si muove verso l’alto, ma tutte e due hanno lo stesso risultato, cioè l’assenza di vento e tanto caldo.
Il blogger del podcast, Ferruccio Bongi, narrava che passare e fermarsi in quelle calme era ovviamente messo in conto da chi attraversava gli oceani. Nel dettaglio delle navi Camogliesi, la scarsità di venti s’incontrava generalmente nei viaggi del guano in Perù, in quelli verso l’Australia in espansione e, ovviamente, nel ritorno dall’Estremo Oriente facendo rotta nel Pacifico.
Mappa realizzata dal Capitano Camogliese Giuseppe Costa raffigurante il viaggio oceanico del veliero “Bice” (conservato al Civico Museo Marinaro “G.B. Ferrari”)
Il Capitano sapeva bene quali erano le priorità da considerare in quella criticità: l’acqua, il vento, il cibo, lo stress dell’equipaggio. Una volta che il veliero perdeva velocità, s’insinuava nell’equipaggio un senso di inutilità e di tedio, ognuno si chiedeva “cosa ci sto a fare qui se la nave s’è fermata?”
Per questo aspetto era già pronto il rimedio: rispettare una prevista disciplina e aver tante cose da fare. E allora si lavorava per ripitturare certe aree della nave “cotte dal Sole” oppure per riparare quelle vele danneggiate alle latitudini più elevate. Essendo poi le zone equatoriali punti d’incontro dei due Alisei, le stesse erano sedi di abbondanti piovaschi: se l’acqua iniziava a scarseggiare, con l’aiuto delle vele inutilizzate, si raccoglieva quella piovana. Si considerava un pò quella zona di bonaccia come un periodo di riposo e manutenzione, tanto si sapeva che – con l’ausilio delle correnti – il veliero sarebbe stato scarrocciato infine verso il vento.
C’era anche chi pescava, assicurando così delle proteine fresche che sostituivano quelle avariate delle vecchie provviste, danneggiate dall’alta temperatura. La minaccia dello scorbuto veniva mitigata con la famosa frutta della vallata di Camogli in conserva, almeno fino a quando l’esposizione al caldo lo permetteva.
La lancia (o barcaccia) della nave a vela Camogliese “Trojan”, a Gulfport/Mississippi nel 1902
Scarsamente veniva usata la barcaccia per rimorchiare lentamente la nave in acque più areate: l’operazione richiedeva infatti l’allontanamento di parte dell’equipaggio e una considerevole perdita d’energia in clima torrido.
Per mantenere la mente concentrata sull’obiettivo del viaggio, il Capitano ricordava a tutti che quell’area tranquilla e insidiosa era anche chiamata “la latitudine dei cavalli”, riferendosi alla sinistra vicenda di una nave da guerra spagnola del secolo precedente. L’unità s’era trovata immobile e senz’acqua per molto tempo; furono sacrificati i cavalli della truppa per assicurare la rimanenza d’acqua ai soldati.
Dopo il tramonto, chi “cantava bene” s’accompagnava con una chitarra o una fisarmonica, intonando le armonie che ricordavano con nostalgia le famiglie in attesa sulla costa. Pare che durante questi “ozi forzati” nacque il tradizionale “battesimo dell’equatore”, cioè quella scherzosa cerimonia che vedeva come vittime quei membri d’equipaggio che attraversavano per la prima volta la Latitudine di 0°.
Il maestro Fabrizio Giudice suona la chitarra dell’eroe Camogliese Simone Schiaffino (1835 – 1860). Schiaffino era anche diplomato Capitano e portò il suo strumento a bordo. Il reperto è conservato al Civico Museo Marinaro “G.B. Ferrari”
Poi, il lento e ipnotico sbattere delle onde sulle murate, aiutava a prendere sonno in quelle serate di sospensione irreale.
Solo qualche marinaio – prima di chiudere occhio – accennava pacatamente un melodioso fischio. L’equipaggio sapeva bene che fischiare era vietato, ma tant’è, ciò era permesso ai marinai anziani. Era infatti una credenza comune che in assenza di vento, se si fischiava lo si attirava, così da sospingere nuovamente la nave. Non si doveva esagerare però: se non si smetteva per tempo, il vento – fuori controllo – s’alzava impetuoso, creando così una burrasca; per questo, potevano fischiare solo i marinai esperti. In un’epoca dove le insidie meteorologiche non erano ancora prevedibili o segnalate in alto mare, ci si aggrappava a tutto pur di salvarsi la pelle.
Così terminò il podcast di Bongi, provocando il risveglio della fantasia di Anna sulla spiaggia di Camogli. Il ketch aveva preso il largo con l’aiuto di una bava di vento. Sentì una manina toccarle la spalla, istintivamente si tolse gli earpod e…”Ciao mamma!” disse uno dei suoi figli appena arrivato. Mentre suo marito si sistemava la sdraio, le chiese: “Non sapevo ti piacesse fischiare, chissà dove hai imparato!”=
(immagini archivio Capitani Camogli)