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Tre alberi di Camogli (taccuino di maggio)

Gio Bono Ferrari nel suo “Camogli, la Città dei mille bianchi velieri”, aveva ampiamente descritto un centinaio d’anni fa i nostri dintorni e le loro straordinarie vedute.
Oggi, riproponiamo una visita, diremmo virtuale, nella quale si descrive brevemente una passeggiata alla scoperta di tre alberi molto familiari ai residenti. Saremo prima nei pressi del pittoresco ceibo di via Mazzini, poi del carrubo di “del Teatro” e infine l’ippocastano di piazza Schiaffino. Essendo gli ingredienti di questa gita ricchi anche di cultura marinara, ci siamo avvalsi dell’estro di un noto poeta viaggiante del primo Novecento che annotava ogni impressione nel suo taccuino, ma anche di quello di un celebre botanico e quello di una famosa pittrice d’epoca.

C’è qualcosa in Camogli che non si lascia addomesticare, nonostante la sua aria gentile da centro marinaro educato. Forse una bellezza che non si offre tutta insieme, ma che affiora in squarci — selvaggia, trattenuta, come certi volti che portano il mare dentro e parlano poco.

Il ceibo di via Mazzini (archivio Capitani Camogli)

Oggi ho iniziato a camminare senza una meta precisa. Ma appena oltrepassata la curva della strada alta di ponente, mi sono trovato davanti al ceibo, che qui scrivono “seibò”. Sta lì, davanti ad una villa sopra il mare, come una sentinella scordata dal tempo.
I suoi fiori rossi sono accesi come fiamme d’altare; li guardo da vicino: cinque petali asimmetrici, arricciati verso l’alto, con quella curvatura che la natura sembra aver studiato apposta per confondere la geometria. Li definirei papilionacei, ma qui la tassonomia serve solo a calmare la vertigine della bellezza.
Il ceibo è un albero migrante. Originario delle rive sudamericane, è arrivato qui nel ventre di una nave, portato forse da un capitano che cercava di addomesticare il ricordo del Rio de la Plata piantandolo sotto casa.

Camogli, alla fine dell’Ottocento, era ancora un piccolo regno di velieri. Ogni suo giardino ha il sapore di una rotta tracciata, ogni pianta esotica è un frammento di mondo riportato a casa come un dono o una promessa.
Oggi, mentre il vento agita i fiori e li piega verso levante, mi pare che quest’albero abbia in sé un’irrequietezza tutta sua. Non cresce dritto, si torce con grazia, come se avesse ancora nostalgia. L’ho disegnato, più volte, ma il rosso mi sfugge sempre; è un rosso che non si lascia imprigionare: un rosso che urla e poi tace d’improvviso.
Oggi ho annotato poco, ma ho osservato molto. E ogni volta che chiudo gli occhi, vedo quel rosso brillare come un’ossessione che non vuole essere spiegata.


Il carrubo davanti al Teatro Sociale (archivio Capitani Camogli)

Riprendo il cammino verso levante, oltre le case sopra la stazione che si colorano di rosa sbiadito e giallo ferroso. Dopo un breve tratto trovo il Teatro Sociale, incastonato nella piazza come un’anomalia aristocratica. E lì, quasi timido, ecco il carrubo.
Il suo tronco è scuro, contorto, sembra un pezzo di bosco antico rimasto impigliato tra le salite cittadine. Le foglie sono coriacee, ovali, dure come cuoio; i baccelli pendono come strumenti musicali silenziosi.
Non è un albero appariscente, ma ha una nobiltà tutta sua, legata al gesto lento della sopravvivenza. Sopporta la siccità, vive nei margini, e non ha certo fretta.
Mi siedo sulla panchina sotto di lui, e guardo il teatro. Penso agli armatori che lo vollero costruire, uomini che parlavano più lingue, che investivano capitali, che si commuovevano di fronte all’opera lirica. Il carrubo è la pianta giusta per raccontare quella parte preziosa di Camogli: quella che ama l’ombra e il Sole, il retroscena, il silenzio che precede l’applauso.
Disegnarlo è come copiare un manoscritto antico: ogni foglia è un accento, ogni curva del tronco una virgola in un discorso lungo secoli; il tratto si fa paziente, quasi reverente.

Gli ippocastani di piazza Schiaffino (archivio Capitani Camogli)

Poi proseguo per il viale gentile, in soave discesa tra le scale in ardesia e il suono del mare che ogni tanto si insinua tra i muri delle palazzate. Dopo pochi minuti sono su un’altra piazza. Qui, davanti al monumento a Simone Schiaffino, eroe garibaldino e figlio di questa città, svettano diversi ippocastani.
Questo albero ha una maestà familiare. Le sue foglie a palmo si aprono larghe come dita pronte a proteggere i passanti. Le infiorescenze sono alte, piramidali, candele bianco-rosate puntate verso il cielo. C’è qualcosa di cerimoniale nel loro modo di essere.
Penso siano stati piantati apposta, forse per ricordare che anche il verde può essere solenne. L’ombra che creano è netta, profonda, quasi architettonica. I bimbi giocano, le nonne parlano sottovoce, gli abitanti discorrono dei loro affari. Qui il presente non affonda, galleggia morbido. In un palazzo attiguo, sorse nel 1904 la Società Capitani e Macchinisti Navali che è la più anziana associazione di Camogli.
Schizzo uno degli ippocastani con pochi tratti rapidi, non serve molto: un solo albero basta a raccontare tutta la piazza. È come se fosse possibile disegnare l’aria.

Panorama di Camogli d’epoca (archivio Ferrari)

Poi prendo la scalinata stretta che scende al porto. Le pietre sono lisce, consumate dagli anni e dalle suole. Il mare compare all’improvviso, azzurro e quasi arrogante: dal suo comportamento si intende perché questo posto gli deve tutto. Una vertigine estetica mi scuote, come se ogni pietra e ogni cima tesa avessero un significato che non si può dire, ma solo sentire.

Mi fermo sul muretto, le mani in tasca, respiro.

(Ascolta qui l’ottimo podcast a due voci).

Bruno Malatesta

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