Negli anni Settanta, quando l’industria crocieristica era ancora agli albori e il traffico aereo prendeva il largo, c’era un modo ingegnoso e affascinante per dare nuova vita al naviglio in disarmo: acquistare navi passeggeri usate e rimetterle in esercizio.
Questo articolo ripercorre quella stagione particolare del mondo marittimo, fatta di risparmio, passione, spirito d’adattamento e un pizzico di romanticismo tecnico. Tra start-up ante litteram, equipaggi in esplorazione con divise spaiate e ricordi di soci veterani, riscopriamo un’epoca in cui una vecchia nave rappresentava l’entusiastico inizio di una nuova attività.
Anni ’70: la turbonave “Raffaello” saluta Camogli e dirige verso l’Iran, dopo aver dismesso il servizio transatlantico
Erano gli anni ’70, un’epoca in cui confluivano molti aspetti del settore economico e operativo marittimo: sul mercato si trovavano navi passeggeri, cioè ocean liners, dismesse dall’ormai esaurito servizio di linea. Vista ormai la dilagante supremazia del viaggio aereo intercontinentale, negli U.S.A. si consolidava il concetto di crociera verso destinazioni esotiche. In quegli anni, le leggi internazionali di sicurezza erano meno mutevoli rispetto ai nostri giorni, per cui far risorgere una nave esistente comportava spese accettabili per adeguarsi alle nuove normative istituzionali.
Infine, appariva ovvio che in quel modo si sostenevano pure le iniziative di quegli armatori dotati di capitale appena sufficiente, ma con la passione di far rifiorire un comparto prossimo all’oblìo e rigenerare perciò capitale e posti di lavoro.
Poi c’erano motivi soprattutto culturali che spingevano armatori ed equipaggi a riattivare le navi in disarmo: per esempio, un’unità celebre veniva riciclata con un artistico “New” davanti al nome sullo scafo. Oppure si provava quella sensazione di tristezza quando il nuovo personale invadeva nuovamente le sale deserte della zona passeggeri, che odoravano ancora di feste, allegria e vicende di traversate oceaniche. In quei momenti si facevano le più disparate congetture su come sarebbe stata la nave una volta riavviata al suo splendore ma, soprattutto, c’era l’ansia di incominciare.
Ufficiali di Coperta camogliesi a bordo di una nave da crociera negli anni ’70, in sosta a Nassau
Ieri come oggi, lo staff che imbarcava su una nave nuova d’esercizio si sentiva perciò orgoglioso del compito affidatogli, poiché sovente coloro che facevano parte di quell’incarico erano consapevoli d’esserne tra i più qualificati. Non a caso, fu in quegli anni che si sentì per la prima volta il termine “start-up”, oggi tanto in voga.
Nei giorni di scoperta di quegli ambienti nuovi e interessanti, gruppetti di equipaggio verificavano le future competenze: gli ufficiali di Coperta si fiondavano in plancia per avere un’idea immediata della tecnologia di navigazione; gli ufficiali di Macchina commentavano i vari servizi dell’apparato propulsivo; lo staff di camera e cucina e di tutto l’Hotel prendeva appunti su come ottimizzare il proprio personale agli ambienti di bordo e ai loro dispositivi. Poi, c’era un altro aspetto rilevante: gli standard di sicurezza americani, sia di sicurezza che di sanità. Quelle navi erano di solito estranee ai porti d’oltreoceano, per cui una volta arrivate a destinazione, non avrebbero iniziato le crociere senza il semaforo verde delle autorità locali. Di solito si trattava di sostituire macchinari e dispositivi accettati nel resto del mondo ma non in U.S.A., per cui le spese aggiuntive e conseguenti ritardi sugli itinerari diventavano considerevoli.
Plancia di nave da crociera degli negli ’70, in navigazione nei Caraibi
In quegli start-up non mancavano poi episodi classici, che ancor oggi sono ricordati da certi nostri Soci.
Per esempio, ci hanno raccontato del primo viaggio di una nave usata che era ormeggiata in un isolato pontile. Il primo abbigliamento degli ufficiali di coperta era: uno in uniforme bianca, uno in quella blu, uno con giacca a vento e uno con impermeabile inglese! Poi, la partenza rocambolesca da quella sperduta banchina e un’insolita sosta a Ceuta (l’enclave spagnola nella sponda magrebina di Gibilterra) per fare carburante, che al Pireo pare non fosse conveniente! In quel percorso di nuova acquisizione si incuneava anche un senso di eredità. Durante la traversata atlantica, visitando le aree passeggeri ed equipaggio, si aveva l’idea del tipo di clienti che la frequentarono o delle abitudini del personale. Per sottolineare la rilevanza di quei nuovi insediamenti professionali, le permanenze nei porti di riarmo si chiamavano “campagne”: di Grecia, di Inghilterra, del Giappone.
Lasciato il porto di riarmo, la rinnovata nave procede verso il suo ciclo di crociere
Durante il viaggio verso il porto d’inizio crociere, gli sguardi di tutto il personale erano definitivamente rivolti verso prora, a ovest, cioè verso il tramonto di quella esperienza appena conclusa, ma foriera di nuovi orizzonti e positività, sia per l’armatore, sia per chi lavorava a bordo, cioè coloro che avevano di fatto rigenerato e concretizzato quel progetto.=
Bruno Malatesta
(immagini Archivio Capitani Camogli & AI;
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