Charlotte Amalie, 1978.
Sono sbarcato poco dopo le nove col taccuino piegato nella tasca posteriore, ho preso una strada interna. La nave — bianca, pulita, geometrica — riposava alla “banchina sommergibili” come la parentesi di un discorso che non le apparteneva. Gli ospiti erano già in marcia verso i duty-free, attratti da bottiglie di rum, macchine reflex, orologi europei e profumi numerati.
Io ho preferito entrare nel mercato, dove nulla è in saldo e tutto ha un nome proprio.
L’ombrellone arancio e la regina silenziosaSotto un ombrellone dai colori slavati — pesca, crema e un bordo rosso stanco — una donna sedeva diritta dietro a un banco inclinato. Aveva davanti a sé una piccola esposizione: banane, cetrioli, forse un pesce. Indossava un vestito chiaro a fiori e guardava il suo commercio, non per vendere ma per stare. Parlava forse con un uomo seduto accanto — magari il figlio o il nipote, un complice della calura. Dietro di loro, in lontananza, il mare: presente ma comunque in secondo piano. Davano l’impressione di non cercare clienti, non aspettavano crocieristi. Reggevano però la scena come si regge un giorno qualunque, con dignità e lentezza.
Il banco bianco e la sosta tranquillaAll’ombra corta di una pensilina, due piccole figure condividono il mattino. Una osserva il pontile delle barche, l’altra sta riordinando il tavolo ombreggiato dove riposano poche banane. Il cemento del porticciolo intorno è arido, quasi esasperatamente bianco per il Sole battente.
Sul fondo, qualche barca ormeggiata nella baia e delle automobili chiudono la scena con indifferenza. Qui non si vende, non si contratta. È il punto morto della mattina, dove il tempo riposa. Osservando quegli innocenti profili ho concluso che in questa economia fatta di attese, il silenzio vale più delle parole.
Il turbante e lo sguardo laterale
Lei era immobile, quasi chinata di profilo, con un turbante rosso e blu che saliva sulla testa come un’opera d’arte. Non parlava, non sorrideva, non faceva nulla per essere notata. Eppure, era il centro. Il mercato si agitava attorno a lei — bancarelle, voci, venditrici — ma lei era intenta al suo servizio, oltre il margine, per soddisfare tutti. Una turista le ha detto: “Che cappello curioso!”
Ho pensato: quel turbante ha più storia di tutta la nostra crociera, più stile di tutte le boutique che incontreremo in questi dintorni.
Il cuore del mercato In un crocevia disordinato, tra tendaggi appesi, casse di legno, ombre mobili, la venditrice mostrava con cura le delizie del giorno. Le sue mani erano precise, eppure il gesto era familiare, come si piega un lenzuolo in casa. Attorno, nessuna fretta, ma un’energia costante: si parlava, si rideva, si ascoltava. Non si distingue più chi compra da chi vende, perché il mercato ha un battito comune. Qui nessuno parla di “caribbean look” o di “souvenir autentici”. Qui si vive, e basta.
Il tavolo coperto e la piccola trattativa
Un tavolo basso, coperto da una chiara tovaglia. Sopra, gusti da provare, ma anche oggetti minuti: centrini ricamati, forse qualche fiore finto, piccoli panni con bordi colorati. Due donne stanno in piedi, dritte e tranquille, mentre una terza — accovacciata o seduta — osserva da vicino. Le parole, se ci sono, sono poche. Il vero scambio è fatto di occhi, di mani che si sfiorano sul bordo del tessuto, di silenzi che pesano come giudizi. Dietro, un edificio chiaro guarda la scena come un viandante disinteressato. Ma è su questo tavolo che si svolge la vera trattativa del giorno: non per comprare, ma per riconoscersi.
Sulla via del ritorno ho incrociato una coppia di ospiti della nave, seduta davanti a un negozio di alcolici. “Almeno qui il rhum costa meno,” ha detto lui, agitando una bottiglia con orgoglio. Io ho stretto in tasca il mio acquisto: un piccolo portachiavi di legno, fatto a mano, che una donna del mercato mi ha offerto senza prezzo e senza parole.
Non vale nulla, e un oggetto simile è introvabile.
Bruno Malatesta
(immagini Archivio Capitani 1978)
(ascolta qui il podcast di questo scritto)